Negli anni immediatamente precedenti all’inizio dei lavori per il Giudizio Universale, il Buonarroti, anche a seguito dell’incontro con il celebre Tommaso de’ Cavalieri, si era sempre più immerso nella dimensione dello “studio”, dedicandosi all’elaborazione di disegni, di altissimo contenuto dottrinale e simbolico, veri e propri esercizi della mente scissi da una precisa finalità ma volti all’approfondimento di alcuni temi cruciali della cultura occidentale, come i miti della Caduta, della Resurrezione, della Tenebra, del Sogno e dell’Inganno. Mai, forse, avrebbe pensato che tali meditazioni sarebbero passate da fatto privato e misterioso a opera immane destinata ad acquistare fama duratura e universale.
[...] Il grosso del lavoro dovette cominciare proprio in quel momento, tra l’aprile e il maggio del 1536, procedendo alacremente. Ed era fatto secondo il criterio che aveva guidato tutta la vita dell’artista nel principio dell’affermazione assoluta dei processi creativi tipici dell’arte italiana e di nessun’altra. In tal senso Michelangelo si confessava: "Nelle Fiandre dipingono per ingannare gli occhi… né dico tanto male della pittura fiamminga perché essa sia tutta cattiva, ma perché vuol far bene tante cose che non gliene riesce nessuna. Le opere che si fanno in Italia sono quasi le sole che si possano chiamare vera pittura… Nulla è più alto e religioso della buona pittura”.
Ed è vero se si pensa che l’iconografia canonica del Giudizio Universale, al tempo di Michelangelo, era ancora quella elaborata in ambiente fiammingo, con la scena celeste dipinta come un tribunale.
Proprio su questo si appuntava la critica di Michelangelo e il suo Giudizio diveniva l’emblema stesso dell’arte italiana, che è sintesi concettuale e filosofia visiva.