Se c’è una pittura che non ammette doppioni, è quella di Morandi. Ma è anche una pittura che, a chi capisce, insegna, e chi capisce allora, sa trovare per il futuro, una lezione salutare. La lezione della forma. Afro, al solito, cominciò ad apprenderla dai margini. Furono quadri tonali, nel senso che venivano come sommersi da un’ombra cromatica, in cui la luce era risucchiata come da una cartasuga. Basta questo per far capire come s’indirizzasse a Morandi dai margini, e non dalla struttura.
Ma era ciò che doveva sorbire da Morandi, e cioè una fusione a caldo, una visione interiore, in cui, come nelle immagini della coscienza, non si può contare le colonne del Partenone, anche se si ricordi benissimo. Questa visione interiore insegnava ad Afro – che peraltro ancora non l’aveva sceverata – a prendere l’immagine come una cosa a sé, sceverata da ogni contesto: quello in cui si inseriva era altro, e, a farlo altro, valeva la luce.
Non aveva ancora individuato la luce come uno schermo luminoso – la sua fondamentale scoperta formale – ma neanche era la luce di Morandi. La quale si poneva come matrice la luce di Piero e del Caravaggio: la luce come momento cruciale dell’apparizione della forma, la forma stessa della presenza. Con la luce e per la luce, Morandi inventò il colore di posizione, la sua suprema modalità formale.