In Gli ultimi re di Thule, Jean Malaurie scrive che un argomento determinante per studiare un soggetto interessante come gli eschimesi del polo è che in tal modo si può imparare qualcosa sul passaggio dell’essere umano dallo stadio di Neanderthal all’uomo dell’età della pietra.
È scritto con un certo amore. Ma è uno studio sui pregiudizi inconsci.
Qualunque popolazione si lasci valutare su una scala di valori stabilita dalla scienza europea è destinata ad apparire una cultura di primati.
Dare dei voti non ha senso. Ogni tentativo di comparare le culture allo scopo di determinare quale sia la più sviluppata non sarà mai altro che un’ulteriore, merdosa proiezione dell’odio che la cultura occidentale ha nei confronti delle proprie ombre.
C’è un solo modo per comprendere un’altra cultura. Viverla. Trasferirsi in essa, pregare di essere sopportato come ospite, imparare la lingua. Così, forse, prima o poi arriverà la comprensione. Sarà sempre muta. Nell’istante in cui si comprende l’estraneo, si perde il bisogno di spiegarlo. Spiegare un fenomeno significa allontanarsi da esso. Quando comincio a parlare di Quaanaaq, con me stessa o con altri, sto di nuovo per perdere ciò che non è mai stato davvero mio.
Come ora, sul suo divano, dove ho voglia di raccontargli perché mi sento legata agli eschimesi: per la loro capacità di sapere, senza ombra di dubbio, che l’esistenza ha una senso.
Per il modo in cui vivono coscientemente nella tensione fra contraddizioni inconciliabili senza sprofondare nella disperazione e senza cercare una soluzione semplicistica. Per il loro rapido passaggio all’estasi. Perché possono incontrare una persona e vederla com’è, senza giudicarla e senza che la lucidità di mente sia indebolita da pregiudizi.