venerdì 11 ottobre 2013

Emilio Salgari, Sandokan e il colonialismo | "Gli uomini che fecero l'Italia", di Giovanni Spadolini

GLI storici di domani collegheranno l'opera di Emilio Salgari alle prime forme del colonialismo e dell'espansionismo italiani. Nello stesso periodo che vide gli albori della «Società geografica», che accompagnò le prime spedizioni oltremare di missionari e di studiosi, di avventurieri e di disoccupati, di nobili e di miserabi­li, che assecondò le prime penetrazioni economiche delle compa­gnie armatoriali e mercantili, che assisté alle prime esperienze di guerra e di governo in terra d'Africa, i libri di Salgari orientarono la gioventù italiana verso la ricerca di quegli orizzonti misteriosi e sterminati che coincidevano con tutte le suggestioni dell' impe­rialismo.
Pochi si sono accorti dell'autentica «rivoluzione» che il crea­tore di Sandokan operò nella nostra letteratura giovanile, nei no­stri costumi pedagogici, nelle nostre tradizioni educative; e se tutto il Risorgimento non era mai evaso dagli schemi del Giannet­tino, il nuovo romanzo d'avventure ignorò i confini di un tempo, si distaccò dalle convenzioni antiche, si oppose ai pudori, alle paure, alle perplessità delle vecchie generazioni. La cavalleria e l'intrigo, l'ardimento e la viltà, il coraggio e la paura, l'amore e la violenza, il perdono e la vendetta, i più diversi e potenti senti­menti umani si intrecciano, si rincorrono, si alternano nella Sci­mitarra di Budda come nella Favorita del Mahdi, nei Pirati della Malesia come in José il peruviano, nella Caduta di un Impero co­me nei Pescatori di balene, in una corsa spettacolare che non ri­fiuta nessun artificio e nessuna seduzione, ma ignorando ne quasi il valore e sfuggendo a ogni malizia.
Nelle imprese degli oceani e dei ghiacciai, delle praterie e dei deserti, si riflesse meglio che in molti dei libri ufficiali l'epica della terza Italia, ormai disancorata dai rigori e dai formalismi di una tradizione arcaica e perenta. Le prospettive eroiche e fiabe­sche evocate dalla fantasia di Salgari alimentarono la smania di grandezza delle generazioni post-risorgimentali, la nostalgia di gloria dei ragazzi che non avevano partecipato alla spedizione dei Mille e sognavano il battesimo dell'avventura e dell'amore, l'eva­sione di quella piccola borghesia che non poteva più riconoscersi
nella realtà del « piede di casa» e inclinava al richiamo della fo­resta, alle suggestioni dell' Africa, alla tentazione della conquista e del dominio.
Il Corsaro nero, apparso nel 1899, quasi a consacrare le glorie di un secolo, ultima chanson de geste dell'Italia umbertina, testi­monia a sufficienza i gusti e gli orientamenti di quella gioventù italiana, che era ormai arrivata alla fine e alla consumazione dei miti nazionali e romantici.
Non manca, nel romanzo celebre, nessuna delle componenti psicologiche e ambientali di effetto infallibile per l'Italia fine se­colo; l'impegno d'onore, il giuramento sul cadavere del fratello, l'intermezzo d'amore e il fascino della guerra, il mistero del mare e la magia della foresta, le fughe dei traditori e la vittoria dei giu­sti, la rinuncia alla donna e la consacrazione della vendetta. 

Kebir Bedi in SandoKan

Come sempre nei libri di Salgari, il tempo non ha importanza, le nazionalità si dissolvono negli individui, la storia si confonde con la leggenda, la realtà si immedesima col sogno, il romanzo d'appendice cede all'elegia, e tutto si svolge in stile, in costume, quasi in falso antico, al fine di impressionare più profondamente la sensibilità e la fantasia degli italiani.
Lo scrittore solitario e miserabile, assillato per tutta la vita dai ricatti degli editori e dai bisogni della famiglia, fu in realtà uno dei profeti più lucidi e arditi del gusto contemporaneo, e gran parte della cinematografia d'avventure si ricollega, consapevol­mente o no, alle ispirazioni e alle suggestioni dei suoi romanzi. Il Seicento melodrammatico e generoso, immortalato nel Corsaro nero, è lo stesso che si è proiettato tante volte sugli schermi, ma senza più quella patina di velata e quasi accorata grandezza che era propria dello scrittore d'appendice a un centesimo la pagina.
Tutto fu sfortuna, e tragedia, intorno a lui. Perfino il suo cen­tenario, caduto il 16 settembre 1962, non fu pacifico. Cent'anni contestati e incerti: perché lo scrittore, cui fu negata ogni soddi­sfazione nella vita, aveva la civetteria di ringiovanirsi di un anno e riuscì così a trarre in inganno quasi tutti i compilatori di enci­clopedie e di dizionari, fermi alla data del 1863 come punto di partenza di una vicenda umana tormentata e contraddittoria desti­nata a smentire tutti gli ideali dell 'arte. "
In realtà Salgari nacque a Verona nel 1862 e concluse tragicamente la sua giornata terrena neppure cinquant'anni dopo a Tori­no, nel 1911, là nella foresta della Madonna del Pilone, dopo una vita travagliata e piena di amarezze, dopo tante speranze deluse e tante mortificazioni patite (il narratore che ha accompagnato la nostra infanzia usava inviare in omaggio a Casa Reale tutti i suoi romanzi, ottantatré per la storia, nella speranza di ricevere dalla munificenza regia un qualsiasi premio in denaro che ne sov­venisse le ristrettezze familiari aggravate da una moglie pazza e da quattro figli: gli giunse solo la croce di cavaliere!).
Eppure questo scrittore sfortunato, che vendeva i suoi romanzi a dispense prima ancora di averli scritti, rispecchiò come pochi altri gli stati d'animo e le passioni dominanti nel suo tempo, fu l'interprete e quasi il consolatore di una società inquieta e cercan­te. Il Corsaro nero, il libro che toccò intorno alla fine del secolo le 80.000 copie di tiratura (un best-seller assoluto per i tempi), resta anche in questo campo l'opera più significativa e più emble­matica di tutta la complessa produzione salgariana.
Specchio di un mondo. Nella prospettiva dell'Italia 1899, la battaglia navale vinta dalla Folgore soddisfaceva gli orgogli e le velleità marittime di una nazione che non aveva dimenticato Lis­sa. Nell'epoca pervasa dagli slanci di Domokos, i filibustieri del­la Tortue rinnovavano gli impeti e gli eroismi garibaldini. Nell'I­talia che inclinava già al dannunzianesimo, il corsaro meditabon­do e cavalleresco ricordava i capitani di ventura del Rinascimen­to, il giuramento terribile riportava ai versi di Pontida, la duches­sa fiamminga rinverdiva le dolcezze del romanticismo, gli antro­pofaghi della foresta vergine confermavano la scienza di Lom­broso, l'imboscata degli Arawaki dava un senso di attualità alle notizie delle guerre coloniali, la savana tremante anticipava le canzoni d'oltremare, gli uragani delle Antille ridestavano la pas­sione per la geografia e l'assalto del giaguaro alimentava nei poe­ti il gusto dell'esotico e del misterioso.
Reminiscenze storiche e arditezze geografiche, indulgenze sentimentali e compiacenze retoriche, abbandoni del sogno e vio­lenze dell'epica, tutto si coordinava in una singolare spontaneità favorita dall'ignoranza dell'autore e dalla sua quasi assoluta man­canza di esperienze di vita e di contatti umani.
Dopo che il Parlamento italiano rese omaggio, nell 'altro dopoguerra, allo scrittore che aveva acceso alcune delle più nobili passioni degli italiani moderni, la critica letteraria si affaticò a discutere sui meriti stilistici, sui valori formali, sulle qualità liri­che o evocative, passando dalle più assurde esaltazioni alle più deprimenti condanne.
Nel paragone con Verne, che sembrò d'obbligo, quasi tutti op­tarono per lo scrittore francese: ed era logico. Ma dimenticarono un fatto importante: che Salgari si lega, molto più che alla storia della letteratura, a quella del costume italiano. Insieme con De Amicis e con Collodi, può aspirare a essere classificato fra i «pa­dri della patria».
Gli uomini che fecero l'Italia, Giovanni Spadolini