sabato 19 ottobre 2013

The Catcher in the Rye - Il giovane Holden di J. D. Salinger | James Castle, il ragazzo di Elkton Hills

- Benissimo, - dissi. Ma il guaio era che non riuscivo a concentrarmi. Quasi tutto quello che mi venne in mente fu­rono quelle due suore che se ne andavano in giro a fare la questua con quei vecchi cestini di paglia mezzo rotti. Soprat­tutto quella con gli occhiali dalla montatura di metallo. E quel ragazzo che avevo conosciuto a Elkton Hills. C'era questo ra­gazzo, a Elkton Hills, si chiamava James Castle, che non volle ritrattare quello che aveva detto di quel pallone gonfiato di Phil Stabile. James Castle aveva detto di lui che era un pal­lone gonfiato, e uno degli sporchi amici di Stabile era andato a rifischiarglìelo. Allora Stabile, con altri sei o sette luridi ba­stardi, andò nella stanza di James Castle, entrò, chiuse a chiave quella maledetta porta e cercò di fargli ritirare quello che aveva detto, ma lui niente. Allora gli saltarono addosso. Non vi dico davvero quello che gli hanno fatto - è troppo rivoltante - ma lui non volle ritrattare lo stesso, il vecchio James Castle. E do­vevate vederlo. Era un piccoletto magro che pareva un soffio, con certi polsi sottili come fiammiferi. Andò a finire che invece di ritrattare quello che aveva detto si buttò dalla finestra. Io stavo alla doccia e via discorrendo, eppure lo sentii che piom­bava giù. Ma pensai che fosse caduta dalla finestra qualcosa, una radio, una scrivania, qualcosa, insomma, non un ragazzo né niente di simile. Poi sentii tutti che correvano per il corri­doio e per le scale, e allora mi misi la vestaglia e corsi giù an­ch'io, e là c'era il vecchio James Castle, là sugli scalini di pietra eccetera eccetera. Era morto, e c'erano denti e sangue dapper­tutto e nemmeno un cane che se la sentisse di andargli vicino. Aveva addosso quel maglione col collo alto che gli avevo pre­stato io. Quelli che stavano nella stanza con lui li espulsero e basta. Non finirono nemmeno in galera. 
Clandestino, tecnica mista su carta - Gianluca Salvati - Caracas febbraio 2005
Ma fu quasi tutto quello che mi riusci di pensare. Quelle due suore che avevo visto a colazione e quel James Castle che avevo conosciuto a Elkton Hills. Il buffo è che James Castle quasi non lo conoscevo nemmeno, se proprio volete saperlo. Era uno di quei tipi che stanno sempre zitti. Facevamo lo stesso corso di matematica, ma stava lontanissimo, dall'altra parte dell'aula, e non si alzava quasi mai per dire la lezione o per andare alla lavagna o roba del genere. Certi ragazzi, a scuola, non si alzano quasi mai per dire la lezione o per andare alla lavagna. Credo che l'unica volta che ci siamo parlati è stato quando mi ha chiesto se potevo prestargli il mio ma­glione col collo alto. E quando me l'ha chiesto per poco non ci restavo secco, tanto ero meravigliato eccetera eccetera. Mi ri­cordo che quando me l'ha chiesto stavo ai gabinetti a Iavarmi i denti. Mi disse che suo cugino veniva a prenderlo per fare una gita in macchina e via discorrendo. Non sapevo nemmeno che sapesse che avevo un maglione col collo alto. Di lui sa­pevo soltanto che all'appello il suo nome era subito prima del mio. Cabel R., Cabel W., Castle, Caulfield - me ne ricordo ancora. Se volete saperlo, quel maglione stavo per non prestar­glielo. Proprio perché non lo conoscevo tanto bene.
Il giovane Holden - The Catcher in the Rye, J. D. Salinger

giovedì 17 ottobre 2013

Parabola dello zero: i paradossi della storia | Willem de Kooning, Woman 1951

Uno degli affascinanti paradossi della storia è che per vedere ciò che abbiamo alle spalle dobbiamo guardare avanti, dedurre le cause da effetti sparsi qua e là, cogliere le somiglianze tra i discendenti per immaginare il volto dei progenitori. Come in questo caso. Seguiamo dunque lo sciame dei punti in una moltitudine di lingue e in un lungo arco di tempo, nella matematica ma non solo, e vediam­o se ci condurranno all'alveare.
In quanto suoni provenienti dal latino, dal greco, dal sanscrito e da altri idiomi, che in nuovi contesti linguistici tendevano a non esser più pronunciati, già a partire dal I secolo a.C. essi diventarono segni diacritici - tracce di nasali, ­gutturali e aspirate che a forza d'indebolirsi erano diventate mute, e sopravvivevano solo come punti, tratti e riccioli aggiunti ad altre lettere. I linguisti lo chiamano 'grado zero': suoni ormai esausti, utili quindi per segnare ­cambiamenti di fonemi più vigorosi. È forse una parabola ­acustica del ruolo di zero quale modificatore di valore? ­In ebraico le vocali -quando ci sono- hanno spesso l'aspett­o di punti posti sopra o sotto una lettera; aiutano i principianti a evitare le ambiguità (così come la loro as­senza le favorisce, un fatto dimostrato dalla tecnica d'interp­retazione in cui parole formate da consonanti sono lette come se contenessero vocali via via diverse, e celassero significati altrettanto numerosi).
Zero - Storia di una cifra, Robert Kaplan


Willem de Kooning, Woman 1951

venerdì 11 ottobre 2013

Emilio Salgari, Sandokan e il colonialismo | "Gli uomini che fecero l'Italia", di Giovanni Spadolini

GLI storici di domani collegheranno l'opera di Emilio Salgari alle prime forme del colonialismo e dell'espansionismo italiani. Nello stesso periodo che vide gli albori della «Società geografica», che accompagnò le prime spedizioni oltremare di missionari e di studiosi, di avventurieri e di disoccupati, di nobili e di miserabi­li, che assecondò le prime penetrazioni economiche delle compa­gnie armatoriali e mercantili, che assisté alle prime esperienze di guerra e di governo in terra d'Africa, i libri di Salgari orientarono la gioventù italiana verso la ricerca di quegli orizzonti misteriosi e sterminati che coincidevano con tutte le suggestioni dell' impe­rialismo.
Pochi si sono accorti dell'autentica «rivoluzione» che il crea­tore di Sandokan operò nella nostra letteratura giovanile, nei no­stri costumi pedagogici, nelle nostre tradizioni educative; e se tutto il Risorgimento non era mai evaso dagli schemi del Giannet­tino, il nuovo romanzo d'avventure ignorò i confini di un tempo, si distaccò dalle convenzioni antiche, si oppose ai pudori, alle paure, alle perplessità delle vecchie generazioni. La cavalleria e l'intrigo, l'ardimento e la viltà, il coraggio e la paura, l'amore e la violenza, il perdono e la vendetta, i più diversi e potenti senti­menti umani si intrecciano, si rincorrono, si alternano nella Sci­mitarra di Budda come nella Favorita del Mahdi, nei Pirati della Malesia come in José il peruviano, nella Caduta di un Impero co­me nei Pescatori di balene, in una corsa spettacolare che non ri­fiuta nessun artificio e nessuna seduzione, ma ignorando ne quasi il valore e sfuggendo a ogni malizia.
Nelle imprese degli oceani e dei ghiacciai, delle praterie e dei deserti, si riflesse meglio che in molti dei libri ufficiali l'epica della terza Italia, ormai disancorata dai rigori e dai formalismi di una tradizione arcaica e perenta. Le prospettive eroiche e fiabe­sche evocate dalla fantasia di Salgari alimentarono la smania di grandezza delle generazioni post-risorgimentali, la nostalgia di gloria dei ragazzi che non avevano partecipato alla spedizione dei Mille e sognavano il battesimo dell'avventura e dell'amore, l'eva­sione di quella piccola borghesia che non poteva più riconoscersi
nella realtà del « piede di casa» e inclinava al richiamo della fo­resta, alle suggestioni dell' Africa, alla tentazione della conquista e del dominio.
Il Corsaro nero, apparso nel 1899, quasi a consacrare le glorie di un secolo, ultima chanson de geste dell'Italia umbertina, testi­monia a sufficienza i gusti e gli orientamenti di quella gioventù italiana, che era ormai arrivata alla fine e alla consumazione dei miti nazionali e romantici.
Non manca, nel romanzo celebre, nessuna delle componenti psicologiche e ambientali di effetto infallibile per l'Italia fine se­colo; l'impegno d'onore, il giuramento sul cadavere del fratello, l'intermezzo d'amore e il fascino della guerra, il mistero del mare e la magia della foresta, le fughe dei traditori e la vittoria dei giu­sti, la rinuncia alla donna e la consacrazione della vendetta. 

Kebir Bedi in SandoKan

Come sempre nei libri di Salgari, il tempo non ha importanza, le nazionalità si dissolvono negli individui, la storia si confonde con la leggenda, la realtà si immedesima col sogno, il romanzo d'appendice cede all'elegia, e tutto si svolge in stile, in costume, quasi in falso antico, al fine di impressionare più profondamente la sensibilità e la fantasia degli italiani.
Lo scrittore solitario e miserabile, assillato per tutta la vita dai ricatti degli editori e dai bisogni della famiglia, fu in realtà uno dei profeti più lucidi e arditi del gusto contemporaneo, e gran parte della cinematografia d'avventure si ricollega, consapevol­mente o no, alle ispirazioni e alle suggestioni dei suoi romanzi. Il Seicento melodrammatico e generoso, immortalato nel Corsaro nero, è lo stesso che si è proiettato tante volte sugli schermi, ma senza più quella patina di velata e quasi accorata grandezza che era propria dello scrittore d'appendice a un centesimo la pagina.
Tutto fu sfortuna, e tragedia, intorno a lui. Perfino il suo cen­tenario, caduto il 16 settembre 1962, non fu pacifico. Cent'anni contestati e incerti: perché lo scrittore, cui fu negata ogni soddi­sfazione nella vita, aveva la civetteria di ringiovanirsi di un anno e riuscì così a trarre in inganno quasi tutti i compilatori di enci­clopedie e di dizionari, fermi alla data del 1863 come punto di partenza di una vicenda umana tormentata e contraddittoria desti­nata a smentire tutti gli ideali dell 'arte. "
In realtà Salgari nacque a Verona nel 1862 e concluse tragicamente la sua giornata terrena neppure cinquant'anni dopo a Tori­no, nel 1911, là nella foresta della Madonna del Pilone, dopo una vita travagliata e piena di amarezze, dopo tante speranze deluse e tante mortificazioni patite (il narratore che ha accompagnato la nostra infanzia usava inviare in omaggio a Casa Reale tutti i suoi romanzi, ottantatré per la storia, nella speranza di ricevere dalla munificenza regia un qualsiasi premio in denaro che ne sov­venisse le ristrettezze familiari aggravate da una moglie pazza e da quattro figli: gli giunse solo la croce di cavaliere!).
Eppure questo scrittore sfortunato, che vendeva i suoi romanzi a dispense prima ancora di averli scritti, rispecchiò come pochi altri gli stati d'animo e le passioni dominanti nel suo tempo, fu l'interprete e quasi il consolatore di una società inquieta e cercan­te. Il Corsaro nero, il libro che toccò intorno alla fine del secolo le 80.000 copie di tiratura (un best-seller assoluto per i tempi), resta anche in questo campo l'opera più significativa e più emble­matica di tutta la complessa produzione salgariana.
Specchio di un mondo. Nella prospettiva dell'Italia 1899, la battaglia navale vinta dalla Folgore soddisfaceva gli orgogli e le velleità marittime di una nazione che non aveva dimenticato Lis­sa. Nell'epoca pervasa dagli slanci di Domokos, i filibustieri del­la Tortue rinnovavano gli impeti e gli eroismi garibaldini. Nell'I­talia che inclinava già al dannunzianesimo, il corsaro meditabon­do e cavalleresco ricordava i capitani di ventura del Rinascimen­to, il giuramento terribile riportava ai versi di Pontida, la duches­sa fiamminga rinverdiva le dolcezze del romanticismo, gli antro­pofaghi della foresta vergine confermavano la scienza di Lom­broso, l'imboscata degli Arawaki dava un senso di attualità alle notizie delle guerre coloniali, la savana tremante anticipava le canzoni d'oltremare, gli uragani delle Antille ridestavano la pas­sione per la geografia e l'assalto del giaguaro alimentava nei poe­ti il gusto dell'esotico e del misterioso.
Reminiscenze storiche e arditezze geografiche, indulgenze sentimentali e compiacenze retoriche, abbandoni del sogno e vio­lenze dell'epica, tutto si coordinava in una singolare spontaneità favorita dall'ignoranza dell'autore e dalla sua quasi assoluta man­canza di esperienze di vita e di contatti umani.
Dopo che il Parlamento italiano rese omaggio, nell 'altro dopoguerra, allo scrittore che aveva acceso alcune delle più nobili passioni degli italiani moderni, la critica letteraria si affaticò a discutere sui meriti stilistici, sui valori formali, sulle qualità liri­che o evocative, passando dalle più assurde esaltazioni alle più deprimenti condanne.
Nel paragone con Verne, che sembrò d'obbligo, quasi tutti op­tarono per lo scrittore francese: ed era logico. Ma dimenticarono un fatto importante: che Salgari si lega, molto più che alla storia della letteratura, a quella del costume italiano. Insieme con De Amicis e con Collodi, può aspirare a essere classificato fra i «pa­dri della patria».
Gli uomini che fecero l'Italia, Giovanni Spadolini

mercoledì 9 ottobre 2013

I percorsi delle forme - I testi e le teorie | Il figurale di Lyotard, l'anamorfosi e la qualità delle nubi

Le forme eccessive e mostruose, di cui parla Baltrusaitis, hanno nel prodigio dell'anamorfosi una delle loro ma­nifestazioni più evidenti. L'anamorfosi - cioè «il gioco di due spazi embricati» - non è altro che un diversivo prospettico, dove la forma prende il sopravvento, nascon­dendo o disvelando il proprio significato a seconda del­l'angolazione dello sguardo dell' osservatore. L'ana­morfosi «proietta le forme fuor di se stesse invece di ri­durle progressivamente ai loro limiti visibili, e le disgre­ga perché si ricompongano in un secondo tempo, quando siano viste da un punto determinato.
Con Lyotard, possiamo dire che l'anamorfosi ha una funzione critica in rapporto alla rappresentazione; «è una critica attraverso il rappresentante e non il rappre­sentato. [ . ..] Con l'anamorfosi è attaccato il significante stesso che si rovescia sotto i nostri occhi». Le forme in­quietanti, le figure distorte, la continua metamorfosi delle forme, mettono in rilievo la fondamentale presen­zà dell'osservatore e del suo punto di osservazione, me­dium attraverso il quale le forme stesse possono «parla­re». E tuttavia di fronte a esse l'occhio cessa «di essere catturato e viene restituito all'esitazione del percorso e del luogo».
Nel pensiero di Lyotard, l'analisi dei principi prospettici dell'anamorfosi diventa l'occasione per mettere in rilievo come il vedere ci ponga di fronte a delle possibilità che vanno ben al di là dello stesso rappresentabile e del­lo stesso dicibile. La decostruzione della retorica e del dominio del discorsivo - attraverso una trama di figure metamorfiche che sono dominate dai luoghi dell'incon­scio, dove nessuna conciliazione o conclusione è data o è possibile - traspare nel gioco degli spazi dell'ana­morfosi, dove ogni riferimento viene perduto.
L'epoca delle grandi narrazioni è allora per Lyotard conclusa. Il sapere si rivela invece discontinuo nel suo vagare tra frammenti e citazioni, che sono l'anima del postmoderno. Vi è in Lyotard una chiara consapevolez­za delle instabilità teoriche e sociali che attraversano il mondo contemporaneo e che incidono sulla funzione, in esso, del pensiero filosofico. «I pensieri non sono frutti della terra. Se essi sono sistemati in sezioni in un grande catasto, è solo per comodità degli uomini. I pen­sieri sono nubi.»

 Ma la nube è senza qualità, senza qualità definite, codificabili; è forma metamorfica come allo stesso modo sono metamorfici e indecifrabili i pen­sieri che, fugaci, cambiano continuamente forma. «I pensieri dunque non sono nostri. Siamo noi che cerchia­mo di farei accogliere da essi e di farei adottare.»  Tut­to quindi è in corso, senza un inizio e senza una fine.
Proprio l'arte, in quanto «plasticità e desiderio, esten­sione curva e spazio diacritico», può opporsi a ciò che è invariabile e alla ragione. L'arte vuole figura e bellezza che, d'altra parte, è sempre «figurale, non legata, ritmi­ca. Il vero simbolo fa pensare ma in primo luogo fa "vedere"» proprio perché si mantiene per sempre sensibile presenza «di un mondo che è una riserva di "vedute", oppure di un intramondo che è una riserva di "visioni", in ogni caso tale che ogni discorso si esaurisca prima di venirne a capo».
Si apre così quello spazio figurale, quale momento corporeo e pulsionale, che fa emergere una opacità im­maginativa, solo a esso peculiare, intraducibile nella logica del discorso e della comunicazione. L'espressione artistica è il luogo della sua traduzione. Nello scarto on­tologico dato dallo spazio figurale di contro a quello te­stuale, Lyotard evidenzia la forza del figurale stesso che si manifesta in diversi gradi: opacità, verità, evento.
È una verità mai logocentrica quella che Lyotard pro­pone. Una verità che passa invece attraverso la figura, il desiderio, all'interno di una forza critica che prescinde da qualsiasi assoluto. I personaggi di Lyotard non pos­sono quindi essere altri che Freud, Saussure, Merleau­Ponty, Cézanne, Klee, Mallarmé ... e proprio in quest'ul­timo riemerge prepotente il luogo del simbolo e dell'e­nigma, poiché egli porta a «perfezione formale il gioco figurale della parola». Per Mallarmé, «nominare un oggetto equivale a sopprimere i tre quarti del godimen­to del poema, che è fatto invece della felicità di indovi­nare a poco a poco. 
[. .. ] Ci deve sempre essere enigma in poesia; lo scopo della letteratura, altri non ce n'è, sta nell'evocare gli oggetti».

Volto grigio, collage su cartone - Gianluca Salvati 2008
Tuttavia è solo dall'interno del discorso che per Lyo­tard «si può passare alla e nella figura». Si può infatti af­fermare che la figura è «dentro e fuori, tant'è che detie­ne il segreto della conoscenza, ma al tempo stesso la ri­vela come un inganno». L'occhio «è nella parola», l'«oc­chio ascolta» proprio perché c'è nel discorso lo spazio figurale, lo spazio del desiderio, dell'energia dell'Es. Insomma, un altro spazio che è quello degli artisti e dei loro eventi, che è lo spazio dell'anamorfosi, della disar­monia, della mancanza di soluzioni pacificate, del caos, del desiderio.
Ed è proprio con Klee che Lyotard vuole entrare in un «mondo fantasmatico, in un "intramondo", in un "invisibile" che non è il rovescio del visibile ma la sua "differenza", l'inconscio rovesciato, il possibile plasti­co», Un Klee, quello di Lyotard, che costruisce senza un modello, «senza la pretesa di "ricostruire", più o meno velato, un "nuovo" mondo intelligibile, più "vero" del­l' altro».
In tal modo traspare quello che possiamo definire il senso critico dell' arte, luogo privilegiato dove si manife­sta la differenza, dove si mette in scena ciò che non si può significare, ciò che trascende la stessa possibilità espressiva e va al di là del «rapporto "entropatico", di simpatia più o meno simbolica, che l'opera instaura con l'autore o lo spettatore, rinchiudendosi, da qui par­tendo, all'interno di una scala di "valori", sociali o indi­viduali».
I percorsi delle forme - I testi e le teorie, Maddalena Mazzocut-Mis

domenica 6 ottobre 2013

Historia de un cuadro | Masacre en Corea, Pablo Picasso comunista - Museo Picasso Paris

Como ya habia ocurrido con el Guernica, Picasso reaccionó a una invasión bélica con una obra y un titulo especifico: tras la invasión estadounidense de Corea, pintó el cuadro de denuncia Masacre en Corea, en el que confronta el bien y el mal a traves de un lenguaje pictórico sencillo.
 

"Y ahí estaba el gran cuadro... del que me había hablado: algo así como hombres-robot... armados con extrañas ametralladoras en actitud de ejecutar a un grupo de mujeres y niños.» 

Masacre en Corea, oleo sobre madera chapada a contrafibra - Museo Picasso Paris
Así describió este cuadro el marchante Daniel ­Henry Kahnweiler en marzo de 1951. Picasso muestra a ambos grupos confrontados en un paisaje verde desolado. A un lado, los militares aparecen como máquinas de guerra inhumanas y sin rostro, y al otro, las mujeres y los niños indefensos y desnudos. Los rostros desencajados por la desesperación y el miedo de las dos mujeres del extremo izquierdo recuerdan otras obras anteriores de Picasso, mientras que el resto de la escena muestra un realismo insolito.
En esta creación el artista concedió mayor importancia a la comprensión del mensaje que a la expresión artistica, un fenómeno poco habitual en Picasso y que se observa sobre todo en relación con el lenguaje pictórico simplificado y particular del arte propagandistico: el pintor malagueño hace una unica concesión al Partido Comunista, que exig
ía un arte realista para ilustrar contenidos politicos.

venerdì 4 ottobre 2013

La sola rivoluzione, J. Krishnamurti - Meditazione e dualismo

[...]  Lasciamo stare se l'interlocutore sia un indiano educato in questa tradizione, condizionato in questa cultura, e se sia la sintesi di questa antica dottrina. Prima di tutto egli non è un indiano, cioè non appar­tiene a questa nazione o alla comunità dei brahmini, sebbene vi sia nato. Nega la stessa tradizione di cui è stato investito. Nega che la sua dottrina sia la continuità degli insegnamenti antichi. Non ha letto nessuno dei libri sacri dell'India o dell'Occidente, perché sono inutili a un uomo che è consapevole di ciò che avviene nel mondo - della con­dotta degli esseri umani con le loro interminabili teorie, con la ben accetta propaganda di duemila o cinquernila anni che è diventata la tradizione, la verità, la rivelazione. 

Alberi, monte, nuvola, cielo settembrino
Per un uomo simile, il quale si rifiuta totalmente e completamente di accettare il mondo, il simbolo con il suo condizionamento, la verità non è un affare di seconda mano. Se voi lo aveste ascoltato, signore, non vi sarebbe sfuggito che fìn dall'inizio ha detto che ogni accettazione di autorità è la negazione stessa della verità, e che ha insistentemente affermato che è necessario essere al di fuori di ogni cultura, tradizione e morale sociale. Se aveste ascoltato, non direste che è un indiano o che continua la tradizione antica in termini moderni. Egli nega total­mente il passato, i suoi maestri, i suoi interpreti, le sue teorie e le sue formule.
La verità non è mai nel passato. La verità del passato è la cenere della memoria; la memoria procede dal tempo e nella morta cenere dell'ieri non c'è verità. La verità è una cosa vivente, ma non nella sfera del tempo.
Così, lasciando stare tutto ciò, possiamo ora passare all'argomento centrale che voi postulate, il Brahman. Sicuramente, signore, la stessa asserzione è una teoria inventata da una mente ricca di immaginazione - sia essa Shankara o il dotto teologo moderno. Si può sperimentare una teoria e dire che è così. Ma un uomo che sia stato educato e condizionato nel mondo cattolico non può avere che visioni di Cri­sto, le quali ovviamente sono la proiezione del suo condizionamento, così come coloro che sono stati educati nella tradizione di Krishna hanno esperienze e visioni nate dalla loro cultura. Così l'esperienza non prova nulla. Riconoscere la visione come Krishna o Cristo è il risul­tato di una conoscenza condizionata; quindi non è affatto una realtà, ma una fantasia, un mito, a cui l'esperienza dà vigore, ma che non ha validità. Perché avete bisogno a ogni costo di una teoria e perché nostulate una credenza? Questo voler porre costantemente la neces­sità della credenza è un sintomo di paura - paura della vita di ogni giorno, paura del dolore, paura della morte e dell'assoluta mancanza di significato della vita. Vedendo tutto ciò, voi inventate una teoria e quanto più questa è abile ed erudita tanto più ha peso. E dopo due­mila o diecimila anni di propaganda quella teoria invariabilmente e scioccamente diviene 'la verità'.
Ma se non postulate alcun dogma, allora vi trovate faccia a faccia con ciò che realmente è. Il 'ciò che è' è il pensiero, il piacere, il dolore e la paura della morte. Quando capirete la struttura della vostra vita quotidiana - con la sua competizione, avidità, ambizione e sete di potere - allora vedrete non solo l'assurdità di teorie, salvatori e guru, ma forse troverete una fine al dolore, una fine all'intera struttura costruita dal pensiero.
La penetrazione e la comprensione di questa struttura è la meditazione.
Allora vedrete che il mondo non è una illusione, ma una terri­bile realtà costruita dall'uomo nel suo rapporto col suo simile. Sono queste le cose che vanno capite e non le vostre teorie del Vedanta, con i riti e tutto l'armamentario della religione organizzata.
Quando l'uomo è libero, senza alcun motivo di paura, di invidia o di dolore, allora soltanto la mente trova la sua pace naturale. Allora può vedere non solo la verità nella successione degli attimi della vita quotidiana, ma anche trascendere la percezione. Allora si ha la fine dell'osservatore e dell'osservato, e la dualità cessa.
Ma di là da tutto ciò e senza alcun rapporto con questa lotta, con questa vanità e disperazione, c'è - e non è una teoria - una cor­rente che non ha né principio né fine, un movimento infinito che la mente non saprà mai cogliere.
Ovviamente, signore, voi farete una teoria di ciò che avete ascol­tato, e, se questa nuova teoria vi piacerà, la diffonderete. Ma ciò che diffondete non è la verità. La verità è solo quando voi siete libero dal dolore, dall'ansia e dall'aggressività che ora riempiono il vostro cuore e la vostra mente. Quando vedrete tutto ciò e quando incontrerete quella benedizione chiamata amore, allora conoscerete la verità di ciò che ora vi viene detto.
La sola rivoluzione, J. Krishnamurti