Andammo alla pizzeria Nonna
bella di Chacaito e ordinammo delle pizze.
Scendendo da via Nivaldo, nei
pressi della mia abitazione, incrociammo un tipo semi alcolizzato che nei primi
tempi aveva provato a spillarmi dei soldi. Fino al giorno che, avendomi chiesto di tenergli della refurtiva
in casa, lo misi a posto una volta per tutte. Anche se quello era un quartiere
residenziale, infatti, confinava con la favela, che in Venezuela si
chiama rancho. La qual cosa non mi scandalizzava: mi sono sempre
piaciuti i luoghi popolari. Ma quando raccontai ai compaesani la storia di quel
tipo, loro si galvanizzarono, fu il tema della serata in pizzeria.
Max Mauro era in Venezuela da
poco ed era stato alloggiato dal responsabile del giornale fascista per cui
lavorava (La Voce
d’Italia) in un albergo mal frequentato, raggiungerlo di sera a piedi
voleva dire esporsi a rapina certa, dato che si trovava in una zona della città
completamente al buio. Neanche fosse stata la bocca dell’inferno.
Max ci raccontò di alcuni
personaggi equivoci che risiedevano nel suo hotel. Carlo Fermi scriveva
messaggini a ruota.
L’altro argomento della sera,
neanche a dirlo, furono i miei quadri. Le prime osservazioni partirono da Carlo
Fermi, il quale quella sera era lì per puro caso: per vedere la casa dove
vivevo... A seguire attaccò Enrico De Simone che, anche quella sera, mi pareva
il suo fido cagnolino da compagnia. In sostanza i due compari
mettevano in dubbio l’autenticità della mia produzione pittorica.
Da non credere, quei due vermi,
due venduti agli ordini di chissà chi, che davano del veniale a me.
Sembrava il colmo dei colmi. Ed erano lì per puro caso. O almeno questa
era la loro versione.
Alla fine della pizza e delle
chiacchiere, Carlo Fermi tirò le fila della forbita conversazione: dato che io
ero forte e non avevo paura, avrei accompagnato Max al suo albergo che non era
molto distante dalla piazza. Poi sarei tornato col taxi. Lui intanto andava,
perché aveva un impegno: era un uomo di mondo, lui... (È per questo che pochi
anni dopo, Carlo Fermi si installerà a Medellin, capitale mondiale della
cocaina, in Colombia).
“Non se ne parla”, gli risposi.
Provarono inutilmente ad insistere i due compari.
Alla fine si rassegnarono:
saremmo andati con Enrico e Pier ad accompagnare Max.
Eravamo nella piazza di Chacaito,
stavo scrivendo l’email del Pier sul cellulare, ad un certo punto notai il
negretto che guardando verso di noi, saltò giù dal muretto dov’era seduto
insieme ad altri. Non ci diedi il giusto peso e quelli presero a seguirci. A un
certo punto, poco prima di uscire dalla piazza, parte di quella teppa ci
superò, prendendo diverse direzioni.
Neanche il tempo di raccapezzarmi
e pensare: “ Ma che storia è questa?...”, che venni colpito alla
nuca. Che botta!
L’ultima scena che vidi prima di
perdere i sensi fu Enrico De Simone: si girava come uno che già conosca il
copione e con la sua nota espressione sulla faccia abbassa la testa, come a
dire: “Ben ti sta!”. E molto casualmente a lui nessuno lo toccò.
Quando mi ripresi avevo il
braccio del negretto che mi stringeva al collo. Il tipo era più basso di me, ma
aveva un avambraccio di tutto rispetto e si teneva ben piantato al suolo. Ebbi
la mia brava reazione e provai a scrollarmi da dosso quell’animale. Gli afferrai
il braccio con entrambe le mani, tirai in avanti verso il basso e gridai come
un animale. Ecco, due animali.
Ero fuori forma, e il negretto
non fece il volo che avrebbe dovuto fare, ma dovette muoversi in avanti con
passi veloci per non cadere. Aveva le scarpe lucide di pelle con la suola in
cuoio che battendo sulle pietre della piazza, producevano uno scalpiccio
piuttosto acuto. La scena aveva del comico.
Si fermò di fronte a me a tre
metri circa. Ci fronteggiavamo io e il negretto e il tipo fece il gesto di
mettere le mani dietro la cintura per prendere il coltello.
A quel punto scappai, senza molta
convinzione, mi pareva di andare al rallentatore. In quel momento uno di quei
figli di troia mi lanciò una bottiglia di birra che si fracassò sulla coscia in
prossimità del mio ginocchio sinistro.
Ritornai nella piazza e mi
fermai. Avevo ancora il cellulare nella mano sinistra. E i miei compagni?
Un attimo dopo vidi un tipo
ridicolo che correva a slalom. Era Enrico De Simone.
Non si perse d’animo il periodista
di destra, quel finto chavista subito prese ad aggredirmi verbalmente:
era colpa mia se ci avevano aggredito; camminavo col cellulare in mano. “E
guarda lì che ti sei fatto!”
Si sentì uno sparo e dopo si vide
la teppaglia scappare nella nostra direzione. Ritornammo al ristorante Nonna
bella. Enrico chiamò la polizia. Io mi feci dare del ghiaccio per l’ematoma
della bottigliata.
La polizia era già lì. Una
pattuglia in moto aveva sentito il mio grido. Poi aveva incrociato Pier che gli
aveva indicato il luogo dell’aggressione. Avevano sparato in aria per
disperderli. Non avevano neanche tentato, che so, di acciuffarne qualcuno.
Prendemmo un taxi per tornare a
casa. Passando davanti ad una pensilina degli autobus c’erano dei ragazzi.
Appartenenti a quella teppa, ci avrei scommesso. Ero ancora dell’idea che
andassero acciuffati ma non lo dissi a Enrico, a che serviva.
A casa continuai a tenere il
ghiaccio sull’ematoma e mi fumai una sigaretta.
Il giorno dopo Enrico De Simone
mi inviò questo messaggio: Hola guerrero, todo bien?
Quando ci rivedemmo Pier non ci
poteva credere: “Ti hanno aggredito in due e li hai messi fuori gioco...”. Non
ricordavo che erano in due, però ripensandoci mi tornò in mente, il secondo
l’avevo colpito col dorso della mano sinistra al volto. Era stata la mia
reazione prima di perdere i sensi.
Più di una persona mi dirà in
seguito che ho fatto male a reagire, che così rischiavo la vita e cose del
genere... Sono certo che avrei rischiato di più se non avessi reagito. Erano
mal intenzionati dal primo momento,
almeno nei miei confronti. A Enrico, infatti, non lo avevano neanche sfiorato.
Il Pier era riuscito a divincolarsi Max
si era ritrovato a terra mentre quelli gli frugavano nelle tasche.
Su una cosa concordammo e fu
abbastanza scioccante: erano tutti ben vestiti. Una élite di marioli, del tipo
che lavorano su commissione. Non a caso.
Avevo da poco denunciato all’autorità competente quegli infami delinquenti in grisaglia
dell’associazione Agustin Codazzi, la scuola presso cui avevo lavorato a
Caracas. E meno male, ho potuto in tal modo mettere un punto fermo nei confronti di quella gentaglia appoggiata dal regime, che non avendomi mai regolarizzato avrebbe potuto inventare qualsiasi palla nei miei confronti. Fatto regolarmente avvenuto al Tribunale di Caracas, ma clamorosamente smentito.